Resp. dell’Ambulatorio della Terapia del dolore del Bambino Gesù di Palidoro e S. Marinella, il dott. Marcello Marri comincia con lo spiegarci che il dolore è un meccanismo intrinseco al nostro organismo, che ci accompagna fin dai primissimi istanti della nostra vita.
«Fino a non più di due decenni fa si pensava ancora che il lattante non potesse percepire il dolore: niente di più falso! In realtà, già dalla ventesima settimana di gestazione, l’embrione ha già predisposte le connessioni per il trasporto dei segnali del dolore (sistema che si completerà intorno al secondo anno di vita). Il dolore è uno strumento salva-vita (molto banalmente, serve alla localizzazione di un trauma e ci dà anche una misura approssimativa dei danni) ma va tenuto sotto controllo perché lasciare che si propaghi troppo a lungo e con troppa intensità, significa permettere al sistema nervoso di attivare dei meccanismi di “memoria del dolore” pericolosi, che possono portare a ciò che si definisce come “dolore cronico”».
Con quali conseguenze?
«Il nostro organismo può continuare a percepire dolore anche dopo che ciò che l’ha provocato è venuto meno».
Come si misura il dolore in un bambino?
«Misurare in età pediatrica il dolore non è facile. A questo scopo sono state individuate una serie di scale per tentare di misurare l’intensità del dolore vissuto dal bimbo. Esistono scale “eterologhe” (attraverso le è un adulto a misurare l’intensità del dolore osservando il comportamento del piccolo) e scale “autologhe” (in cui è il bambino stesso a indicare, con l’ausilio di alcune tabelline illustrate, il dolore da lui percepito). Ma ci sono situazioni ancora più difficili, come per esempio nel caso di bambini sedati o in stato di coma che non possono nemmeno piangere ma percepiscono ugualmente dolore».
Come si tratta il dolore nei pazienti pediatrici?
«Ancora prima di cominciare a parlare di terapia vera e proprio, è fondamentale sapere quale sia l’atteggiamento corretto da tenere nei confronti di un bambino dolore».
Ovvero?
«Prima regola: parlare. Bisogna sempre parlare al bambino (ma anche al neonato) con dolore. Parlare con calma, a voce bassa. Bisogna comunicare al piccolo l’idea che ci stiamo prendendo carico del suo malessere. Il silenzio è pericoloso, perché percepito come abbandono. Anche se siamo convinti che non ci possa capire (come nel caso del neonato) dobbiamo sempre spiegare cosa stiamo per fare (è stato scientificamente provato che l’informazione innalza la soglia del dolore - ovvero ne diminuisce la percezione). Solo dopo avergli parlato possiamo avvicinarsi, sempre con atteggiamento pacato, rassicurante. Quando lo tocchiamo, lo dobbiamo fare con estrema delicatezza, avendo cura sempre che le nostre mani siano calde. Dobbiamo tenere presente che parte della nostra stessa operatività (un prelievo di sangue o il cambio di una medicazione) può evocare il dolore. Ogni manovra va fatta con lentezza, evitando movimenti improvvisi (spesso tali manovre devono essere accompagnate da un’apposita copertura analgesica».
Cosa possono fare i familiari di questi bambini?
«Moltissimo. Durante qualsiasi atto diagnostico e terapeutico, è fondamentale la presenza del genitori accanto al bambino (quando questo non sia reso sconsigliabile, per esempio per via di una procedura d’urgenza oppure, ovviamente, durante un intervento chirurgico). Presso il nostro Ambulatorio teniamo anche dei corsi per istruire genitori e caregivers per la gestione a casa del bambino con dolore».