«La ricerca della felicità è una faccenda seria. E far sì che tutti gli uomini la raggiungano, è uno degli obiettivi principali delle Nazioni Unite». Con queste parole il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha augurato a tutto il mondo una “felice” Giornata Mondiale della Felicità.
Perché mai le Nazioni Unite avranno voluto sancire, a partire dal 2012, una “Giornata mondiale” per celebrare una cosa tanto impalpabile come la felicità? Eppure chi l’ha fatto è gente importante, in giacca e cravatta e in tailleur. Con incarichi di rilievo.
La felicità, come affermato da Ban Ki-moon, è una cosa seria, serissima. Perché da tempo si è capito che il benessere di una nazione non si calcola solo in base al reddito, allo sviluppo culturale e sociale, alla stabilità politica o al clima, ma con un’unità di misura che raccolga tutti questi aspetti e ne sia in qualche modo indipendente.
Questa unità di misura è proprio la felicità, anteposta al Prodotto Interno lordo per la prima volta dal Bhutan, un piccolo stato montuoso dell’Asia, sin dai primi anni Settanta.
E allora, forse, bisogna educarsi alla ricerca della felicità, senza abbandonare mai il sorriso, l’affetto dei propri cari e i propri sogni. L'esempio dei bambini, che sanno abbandonarsi alla felicità con entusiasmo, dovrebbe guidare gli adulti. Bambini che, anche in una realtà difficile come la malattia e il ricovero ospedaliero, riescono a trovare la felicità in piccole cose, come l’abbraccio dei propri genitori o un momento di gioco.
Secondo l’ultimo World Happiness Report, l’italia è solo al ventottesimo posto nella classifica dei paesi più felici del mondo, il cui podio è occupato da Danimarca, Finlandia e Norvegia.
Forse, per scalare la classifica, dovremmo cominciare ad ascoltare davvero quello che i nostri bambini ci dicono: